Il maiale dei miei sogni…
Le fiabe che mi raccontavano da bambino avevano quasi sempre come protagonisti: un maiale, una scrofa, dei maialini o i loro padroni. Storie di gente della Bassa legata a quegli animali come ad un membro della famiglia, tanto da chiamarli con un nome che amorevolmente li distinguesse per le loro caratteristiche, a seconda del mantello, della forma o del peso.
Così potevamo trovare: al macià, al ros, al negar, al curt, al gros, al gras. Diversi sì, ma con una “vocazione” comune, quella di dare salumi eccezionali! Allora mi sembrava che tutto ciò fosse troppo naturale per non perdurare all’infinito! Passano gli anni e di colpo mi disilludo, le star dei miei racconti non ci sono più, i maiali sono diventati tutti magri e bianchi! Do allora inizio alla mia ostinata ricerca, sacrificando per una decina d’anni le mie ferie. Dove sento dire che ci sono maiali diversi, vado, mi documento e compro. Quante delusioni nei primi anni! Fino a quando non succede qualcosa di interessante.
In luoghi quasi irraggiungibili trovo al macià e scopro sui testi che quella razza era chiamata borghigiana dal nome di Borgo San Donnino (attuale Fidenza) ed era famosa per i culatelli e le spalle che sapeva dare. Come conferma anche il minuzioso racconto del vecchio massalino di Vidalenzo di Polesine, il mitico Gino da Schen. Dopo infruttuosi viaggi in Romagna la mia perse-veranza viene ancora una volta premiata. Lì infatti trovo al ros, ce ne sono pochissimi esemplari, mi dicono che ne esistono solamente una ventina, mi ostino ed alla fine riesco a comprarli.
Compito ben più arduo sembra essere la ricerca del negar: il verdetto dei più è unanime: “razza completamente estinta”, quindi reperimento impossibile! Però un giorno il dott. Pietro Tanzi, originario di Rocca di Varsi, un paesino arroccato sull’Appennino, mi racconta di una foto della fine degli anni quaranta, che ritraeva sua nonna insieme ad una scrofa nera coi suoi maialini. Comincio allora la “caccia”, mi precipito sul luogo, ma irrimediabilmente trovo i soliti suini bianchi e magri. Allora scendo le colline arrivando in Toscana, lì la razza nera la conoscono in molti, ma nessuno ha un esemplare da farmi vedere e tanto meno da vendere.
Estendo le ricerche alle Marche, all’Abruzzo ed al Molise ma niente da fare! Ricevuta qualche “dritta” proveniente da esperti del settore, decido di dare un’occhiata anche in Spagna, mi dirigo a sud destinazione Jabugo terra del mitico “pata negra”, il prosciutto più famoso al mondo, ed in quella zona dai monti brulicanti di maiali al pascolo, acquisto tutti i libri sull’argomento.
Dalle foto e dai riscontri su animali reali scopro che sono simili ai neri dei miei racconti ma non hanno le cosiddette “tettole”: Su informazione di un allevatore locale apprendo che nella penisola iberica di razze nere ce ne sono ben dodici con diverse varianti. Non solo, il mio interlocutore mi dice di ricordare che una di esse ha le famose protuberanze… è quella che vado cercando! Lavorando con la mente riesco anche a capire il motivo dell’antica presenza di questa razza spagnola nel solo territorio di Parma e Piacenza, i Borbone! Sì, erano stati proprio i nobili iberici, per molti anni signori indiscussi delle due province, ad importare questi maiali ritenendoli migliori di quelli già presenti.
Le mie ricerche in quella zona rimangono purtroppo infruttuose, faccio ritorno a casa ugualmente felice. Il problema, almeno dal punto di vista storico, è stato risolto; ora però serve l’animale vivo. Arriva una segnalazione che mi indirizza ancora sulle colline tosco-emiliane. Non ci credo molto perché troppe volte sono andato lì per niente! Comunque bisogna provare ancora! Una volta arrivato supero ben presto il mio scetticismo perché, meraviglia delle meraviglie, trovo sei maiali neri presso un contadino che dice di allevarli da sempre, in quanto le carni di quelli moderni non lo soddisfano affatto.
Ora occorre comprarli, dopo una estenuante trattativa con il porcaro – che non capisco se è un furbacchione o se è effettivamente affezionato al suo piccolo branco di suini – riesco ad ottenerne tre: un maschio e due femmine. Altre buonissime notizie arrivano dalla Campania: a Caserta ci sono alcuni esemplari con le già ricordate “tettole”. Riesco così ad acquistare tre scrofe… E’ fatta! Adesso ho proprio tutte le razze che frequentemente apparivano nelle aie delle mie favole, ed in numero tale da poter intraprendere un allevamento.
Una volta concluso questo lungo e faticoso lavoro comincio a pormi qualche doverosa domanda: come sarà la carne? Sarà veramente buona? E se è buona perché questi maiali sono stati abbandonati? Le prime risposte vengono fornite osservando il modo di vivere in fattoria e l’evoluzione degli stessi animali: essi hanno bisogno di spazi di un’ampiezza quattro volte maggiore rispetto ai bianchi, dormono sulla paglia e necessitano di terra in cui grufolare.
Le scrofe fanno un numero di figli relativamente limitato, crescono lentamente e alla fine, a carne matura, risultano enormi con degli incredibili spessori di lardo, fino a poco tempo fa ritenuto inutile. Tutto il contrario dell’odierno suino bianco che riesce a vivere, non molto diversamente dai polli in batteria, in uno spazio limitatissimo dove, impossibilitato a muoversi in tempi ridotti, mette in carne tutto ciò che mangia.
Alla luce di ciò la mia ricerca mi sembra quasi anacronistica e velleitaria, un’inutile perdita di tempo e danaro! E il morale precipita! Anche se tento di crearmi un alibi, cercando una logica giustificazione alla mia ostinazione, dicendomi: in fondo ho salvato dall’estinzione le antiche razze del mio territorio, un’opera sicuramente meritoria al di là del fiasco economico.
Intanto i maiali si sviluppano e dopo una ventina di mesi diventano dei meravigliosi bestioni di 280–300 chili, insomma come si dice dalle nostre parti “da fotografia”. Siamo pronti! Decido allora di macellarne uno per razza, anche se la cosa un po’ mi rattrista: non è facile rinunciare ai pezzi pregiati della mia collezione. Il mio spirito di ricercatore prende comunque il sopravvento, anche perché solo da un controllo delle carni e dei salumi che se ne ricavano può venire il premio delle mie annose ricerche! Quando visiono le parti dei suini non credo ai miei occhi: carni compatte marezzate di grasso, di un bel colore rubino, non pallide come le altre, selezionate così per farle assomigliare il più possibile al vitello e ai lardi rosati di quindici centi-metri con delle belle vene di magro! E che dire dei prodotti che ne derivano.
Quando assaggio i culatelli, le spalle,i salami e il lardo salato, tutti ottenuti secondo le vecchie tradizioni, quasi mi commuovo. Sono meravigliosi! I profumi e i sapori che sprigionano hanno il potere di farmi tornare bambino! L’esperimento è perfettamente riuscito, i miei sforzi e il mio tempo non sono stati buttati via. Quanta soddisfazione ho ottenuto da quei maiali ritenuti antieconomici, non competitivi, di poca carne e molto grasso, insomma non adatti ai canoni del moderno e veloce allevamento intensivo.
Del resto si ricade nel solito discorso degli anni della fame in cui si privilegiava la quantità rispetto alla qualità. Sfortunatamente oggi i tempi sono cambiati! Perseguendo in questa nuova filosofia produttiva, insieme a mio fratello Luciano decidiamo di acquistare delle vecchie porcilaie, di quelle ancora con i pavimenti ed i muri di mattoni, dove allevare queste antiche razze alimentandole come un tempo con i cereali prodotti nella nostra azienda agricola, in modo da continuare a produrre quei salumi unici che noi Spigaroli facciamo da quattro generazioni nell’Antica Corte Pallavicina sulle rive del Po in Polesine Parmense.
Massimo Spigaroli